Per il neonato, il pianto è il mezzo per comunicare il suo stato di infelicità: sta a chi lo circonda riuscire a distinguere i vari toni del pianto: quello dovuto alla scontentezza da quello dovuto al malessere, oppure quello causato da un dolore, sintomo di un disturbo o di una malattia.
Quando verso i sei mesi il bambino ha già iniziato ad interagire con il mondo, i periodi di pianto si riducono notevolmente: si tratterrà più spesso di pianto irritato, ad esempio contro la propria incapacità fisica di seguire la curiosità, che di quello prodotto dalla stanchezza e dalla malinconia, e ancor meno quello dovuto a malesseri e malattie. In generale, i bambini smettono immediatamente di piangere non appena ricevono l’attenzione di cui hanno bisogno, cioè non appena sono presi in braccio o distratti.
In certi periodi, per evitare di doverli tenere troppo a lungo in braccio, può essere utile usare il marsupio: in questo modo il bambino si sente vicino a qualcuno che lo ama, lo sente parlare attraverso la schiena, partecipa alla sua vita osservando tutto, imparando e curiosando nel mondo, e crescendo in armonia con esso.
Non lasciatelo mai piangere fino a sfinirsi, pensando così di “non viziarlo”: i bambini a quest’età non riescono a capire cosa si vuole da loro, si sentono solo abbandonati a sé stesso e non possono fare altro che continuare a piangere, finché qualcuno non interverrà, ma ormai la situazione sarà deteriorata; meglio, dunque, farsi subito avanti, risparmiando a sé e al bambino tensione, strilli disperati e malessere inutile che, a lungo andare, possono compromettere anche lo sviluppo delle capacità del bambino di stabilire relazioni affettive con gli altri.
Quando il pianto è insistente, continuo ed inconsolabile, può avere origine da un malessere fisico più profondo: verificate che il bambino non abbia la febbre, che non soffra per qualche irritazione cutanea, o qualche altre disturbo e, se è il caso, interpellate il pediatra.
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