Ho sempre amato leggere, sin da quando ero piccolissima; per questo motivo ricordo sempre con immenso piacere il giorno in cui ricevetti uno dei doni più graditi della mia infanzia: C’era una volta, raccolta di favole dello scrittore siciliano Luigi Capuana. Questo libro, provato dal tempo, è ancora con me e io lo amo come lo amavo allora quando, bambin,a lo strinsi per la prima volta fra le braccia e aprendolo sentì il suo profumo di “libro nuovo” sprigionarsi dalle pagine illustrate.
La favola che vi racconto oggi è inclusa proprio in questa raccolta e si intitola Cecina. Buona lettura!
C’era una volta un Re, che amava pazzamente la caccia, e per essere più libero di andarvi tutti i giorni, non aveva voluto prender moglie.
I ministri gli dicevano:
– Maestà, il popolo desidera una Regina.
E lui rispondeva:
– Prenderò moglie l’anno venturo.
Passava l’anno, e i ministri da capo:
– Maestà, il popolo desidera una Regina.
E lui:
– Prenderò moglie l’anno venturo.
Ma quest’anno non arrivava mai.
Ogni mattina, appena albeggiava, indossava la carniera, e col fucile sulla spalla, e coi cani, via pei forteti e pei boschi.
Chi avea da parlare col Re, doveva andare a trovarlo in mezzo ai boschi e ai forteti.
I ministri ripicchiavano:
– Maestà, il popolo desidera una Regina.
Talché finalmente il Re si decise, e mandò a chiedere la figlia del Re di Spagna.
Ma, andato per sposarla, si accorse che era un po’ gobbina.
– Sposare una gobbina? No. Mai!
– Ma è bella, è virtuosa! – gli dicevano i ministri.
– È gobbina e basta: no, mai!
E tornò alla caccia, ai boschi e ai forteti.
Quella Reginotta gobbina aveva per comare una Fata.
La Fata, vedendola piangere pel rifiuto del Re, le disse:
– Sta’ tranquilla: ti sposerà e dovrà venire a pregarti. Lascia fare a me.
Infatti un giorno il Re, andando a caccia, incontrò una donnicciola magra, allampanata, che un soffio l’avrebbe portata via.
– Maestà, buona caccia!
Il Re, a quel viso di mal augurio, stizzito, fece una mossaccia, e non rispose nulla.
E per quel giorno non ammazzò neppure uno sgricciolo.
Un’altra mattina, ecco di nuovo quella donnicciuola magra, allampanata, che un soffio l’avrebbe portata via:
– Maestà, buona caccia!
– Senti, strega – le disse il Re – se ti trovo un’altra volta per la strada, te la farò vedere io!
E per quel giorno non ammazzò neppure uno sgricciolo.
Ma la mattina dopo, eccoti lì quella del malaugurio:
– Maestà, buona caccia!
– La buona caccia te la darò io!
Il Re avea condotto con sé le sue guardie, e ordinò che quella donna del malaugurio fosse chiusa in una prigione.
Da quel giorno in poi, tutte le volte che il Re andò a caccia, non poté tirare un sol colpo. La selvaggina era sparita, come per incanto, dai forteti e dai boschi. Non si trovava un coniglio o una lepre, neppure a pagarli a peso d’oro.
Gli accadde anche peggio.
Non potendo più fare il solito esercizio della caccia, il Re cominciò a ingrassare, a ingrassare, e in poco tempo diventò così grasso e grosso, da pesare due quintali con quel suo gran pancione che pareva una botte.
Quando avea fatto due passi per le stanze del palazzo reale, era come se avesse fatto cento miglia. Soffiava peggio di un mantice, sudava da allagare il pavimento; e doveva subito subito riposarsi e mangiare anche qualche cosa di sostanza, per rimettersi in forze. Desolato, consultava i migliori dottori:
– Vorrei dimagrare.
I dottori scrivevano ricette sopra ricette. Non passava giorno, che lo speziale non mandasse a palazzo bicchieroni d’intrugli amari come il fiele, che dovevano guarire Sua Maestà.
Ma Sua Maestà, più intrugli prendeva e più grasso diventava.
Nel palazzo reale avevano già allargato tutti gli usci delle stanze, perché il Re potesse passare; e una volta gli architetti dissero che se non si fossero puntellati ben bene i solai, Sua Maestà col gran peso gli avrebbe sfondati.
Il povero Re si disperava:
– O che non c’era rimedio per lui?
E chiamava altri dottori; ma inutilmente. Più intrugli prendeva e più grasso diventava.
Un giorno si presentò una vecchia e disse al Re:
– Maestà, voi avete addosso una brutta malìa. Io potrei romperla; ma voi, in compenso, dovrete sposare la mia figliuola, che si chiama Cecina, perché è piccina come un cece.
– Sposerò la tua Cecina!
Il Re avrebbe anche fatto chi sa che cosa, pur di levarsi di dosso tutto quel grasso e quel pancione.
– Conducila qui.
La vecchia cacciò una mano nella tasca del grembiule, e ne tirò fuori la Cecina, che era alta appena una spanna, ma bellina e ben proporzionata. Come vide quel pancione, la Cecina scoppiò in una risata; e mentre quella la teneva sulla palma della mano per mostrarla al Re, lei spiccò un salto e si mise ad arrampicarsi su pel pancione, correndo di qua e di là, come se il pancione del Re fosse stato per lei una collina.
Il Re, con quei piedini, sentiva farsi il solletico e voleva fermarla; ma quella, salta di qua, salta di là, peggio di una pulce, non si lasciava acchiappare. Pel solletico, il Re rideva, ah! ah! ah!, e il pancione gli faceva certi sbalzi buffi. Ah! ah! ah!
Allora la Cecina:
– Pancione del Re,
Palazzo per me!
Il Re dal gran ridere, teneva aperta la bocca; la Cecina, dentro e giù per la gola:
– Pancione del Re,
Palazzo per me!
Figuriamoci lo spavento di Sua Maestà e di tutta la corte!
Nella confusione, la vecchia era sparita.
E la Cecina, che dal suo palazzo ordinava:
– Datemi da mangiare!
E il Re doveva mangiare anche per lei.
– Datemi da bere!
E il Re doveva bere anche per lei.
– Lasciatemi dormire!
E il Re dovea stare fermo e zitto, perché la Cecina dormisse.
– Maestà, – disse uno dei ministri – che sia una malìa di quella donna magra, allampanata, fatta mettere in prigione? Facciamola condurre qui.
I guardiani aprirono la prigione e la trovarono vuota. Quella donna dovea essere scappata pel buco della serratura!
– Ed ora che fare?
E la Cecina, dal suo palazzo del pancione:
– Datemi da mangiare! Datemi da bere!
Il popolo intanto mormorava per le tasse; giacché per riempire quel pancione del Re, ce ne volea della roba! E bisognava pagare.
Il Re fece un bando:
– Chi gli cavava la Cecina dallo stomaco, diventava principe reale e avrebbe avuto quattrini quanti ne voleva!
Ma i banditori andarono attorno inutilmente. E come la Cecina cresceva, per quanto poco crescesse, il pancione del Re si gonfiava e pareva dovesse scoppiare da un momento all’altro.
Il Re la pregava:
– Cecina bella, vieni fuori, ti faccio Regina!
– Maestà, sto bene qui dentro. Datemi da mangiare.
– Cecina bella, vieni fuori, ti faccio Regina!
– Maestà, sto bene qui dentro. Datemi da bere.
Se non fosse stato il timore della morte, il Re si sarebbe spaccato il pancione colle proprie mani.
E il popolo che brontolava:
– Re pancione ingoiava tutto! Lavoravano per Re pancione!
Come se Re pancione ci avesse avuto il suo piacere! Lo sapeva soltanto lui, quello che pativa, con la Cecina dentro che comandava a bacchetta e voleva essere ubbidita!
Finalmente un giorno ricomparve la vecchia:
– Ah, vecchia scellerata! Cavami fuori la tua Cecina, o guai a te!
– Maestà, son venuta a posta coi miei dottori.
E i suoi dottori erano due uccellacci più grossi di un tacchino, con un becco lungo un braccio e forte come l’acciaio.
– Maestà, – disse la vecchia – dovete stendervi a pancia all’aria in mezzo a una pianura.
Il Re, che era ingrassato da non poter più fare neppure un passo, comandò:
– Ruzzolatemi.
E il popolo cominciò a ruzzolarlo come una botte, per le scale e per le vie; e, dalla fatica, sudavano.
Arrivati nella pianura, e messo il Re a pancia all’aria, uno degli uccellacci gli diè una beccata sul pancione e, che ne schizzò fuori? Uno zampillo di vino schietto, tutto il vino che Sua Maestà aveva bevuto in tanti anni.
La gente riempiva botti, botticini, caratelli, tini, barili, fiaschi, boccali; non c’erano vasi che bastassero. Pareva di essere alla vendemmia. Tutti cioncavano e si ubriacavano.
E il pancione del Re si sgonfiò un poco.
Allora l’altro uccellaccio gli diè la sua beccata, ed ecco rigurgitar fuori tutto il ben di Dio mangiato dal Re in tanti anni; maccheroni, salsicciotti, polli arrosto, bistecche, pasticcini, frutta, insomma ogni cosa. La gente non sapeva più dove riporli. Tutti mangiarono a crepapancia, come fosse di carnovale.
E il pancione del Re sgonfiò un altro poco.
Allora il Re disse:
– Cecina bella, vien fuori; ti faccio Regina!
La Cecina affacciò la testa da uno dei buchi, e ridendo rispose:
– Eccomi qua.
E il Re tornò com’era prima.
Si sposarono; ma il Re, con quella cosina alta una spanna, che era una moglie per chiasso, si credette libero di tornare a divertirsi colla caccia, e stava fuori intere settimane.
La Cecina piangeva:
– Ah, poverina me!
Son Regina senza Re!
Il Re per questo lamentìo, non la poteva soffrire.
Andò da una Strega e le disse:
– Che cosa debbo fare per levarmi di torno la Cecina?
– Maestà,
– Spellarla, lessarla,
O arrosto mangiarla.
Mangiarla gli repugnava; pure, tornato a casa disse alla Cecina:
– Domani ti condurrò a caccia, e ti divertirai.
Voleva condurla in mezzo ai boschi, dove non potesse vederlo nessuno. Ma la Cecina rispose:
– Spellarla, lessarla,
O arrosto mangiarla.
Grazie, Maestà!
Ah, poverina me!
Son Regina senza Re!
Il Re rimase stupito:
– Come lo sapeva?
Tornò dalla Strega e le raccontò la cosa.
– Maestà, quando la Cecina sarà addormentata, tagliatele una ciocca di capelli e portatemela qui.
Però, quella sera, la Cecina non avea voglia di andare a letto.
– Cecina, vieni a dormire.
– Più tardi, Maestà; per ora non ho sonno.
Il Re aspettò, aspettò, e si addormentò lui per il primo. La mattina, svegliatosi, vide che la Cecina era già levata.
– Cecina, non hai dormito?
– Chi si guarda si salva. Grazie, Maestà.
– Ah, poverina me!
Son Regina senza Re!
Il Re rimase stupito:
– Come lo sapeva?
Tornò dalla Strega e le raccontò la cosa.
– Maestà, invitate re Corvo; appena la vedrà, ne farà un sol boccone.
Venne re Corvo:
– Cra! Cra! Cra! Cra!
E come vide la Cecina, alta una spanna, cra! cra! ne fece un boccone.
– Mille grazie, re Corvo. Ora potete andar via.
– Cra! Cra! Cra! Ma prima di andar via, debbo mangiarti gli occhi.
E con due beccate gli cavò gli occhi.
Il povero Re piangeva sangue:
– La Cecina morta, e lui senz’occhi! Ah, Cecina mia!
Passato un po’ di tempo, ricomparve la solita vecchia. Era la Fata comare della Reginotta di Spagna.
– Maestà, non vi affliggete. La Cecina è viva, e i vostri occhi son riposti in buon luogo; son nella gobba della Reginotta di Spagna.
Il Re si trascinò fino al palazzo reale, dove questa abitava, e cominciò a gridare pietosamente, dietro al portone:
– Ah, Reginotta! Rendetemi gli occhi.
La Reginotta, dalla finestra, rispondeva:
– Sposare una gobbina! No, mai!
– Perdonatemi, Reginotta; e rendetemi gli occhi!
La Reginotta dalla finestra rispondeva:
– Spellarla, lessarla,
O arrosto mangiarla.
Allora il Re capì che la Reginotta di Spagna e la Cecina erano una sola persona; e si mise a gridare più forte:
– Ah, Reginotta! Ah, Cecina mia! Rendetemi gli occhi.
La Reginotta scese giù e gli disse:
– Ecco gli occhi.
Il Re la guardò sbalordito. La Reginotta non era più gobba e somigliava precisamente alla Cecina, benché fosse di giusta statura.
Così fu perdonato, e da lì a poco la sposò.
Lei, per ricordo, volle sempre essere chiamata Cecina.
Vissero lieti e contenti
E a noi si allegano i denti.
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