Ricordate l’ultima edizione dei mondiali di calcio? No? Be’ non le ricorderei neanche io se non fosse che mio figlio, proprio in occasione della prima partita dell’Italia, ha imparato a dire le parolacce. Anzi, una parolaccia. E non una da niente ma una di quelle proprio brutte che si dicono, sbagliando, a una persona che commette un errore grossolano.
Non vi dico la mia disperazione quando lo sentì ripeterla nello stesso istante in cui la captò e non potete immaginare il mio sconforto quando, nei giorni a seguire, cominciò a ripeterla di tanto in tanto. Il fattaccio però si ripeteva solo nell’ambito familiare (la diceva solo in presenza mia e del padre) ragion per cui decidemmo di ignorarlo sperando che la dimenticasse.
Questo fino a quando, durante una tranquilla serata insieme ad una coppia di amici, il piccolo non decise di esibirsi per il pubblico lasciandolo raggelato. Fingemmo tutti indifferenza e nessuno lo rimproverò o gli fece notare in qualche modo che non andava bene quello che aveva detto. Il principio era sempre quello: “Ha solo tre anni, ignoralo e smetterà di dirla”.
Com’è come non è…non funzionò. Mio figlio comincio non solo a ripeterla sempre più spesso, anche davanti ad altri, ma anche ad usarla “a proposito” nei momenti di rabbia (i famigerati temper tantrums) e nel tentativo di rendersi simpatico. La tattica dell’indifferenza continuò insieme alla ricerca di mille spiegazioni: assodato che la diceva intenzionalmente comprendendone, sia pure alla lontana, il senso cominciai a pensare che forse si trattava di un modo per attirare l’attenzione.
Ignoralo quando dice la parolaccia e prestagli attenzione in tutti gli altri momenti, mi ripetevo incessantemente. Risultato? Soffocavo mio figlio stimolandolo con mille domande, parlandogli, giocando lui. Niente da fare, continuava a dirla. Tentai allora con qualche rimprovero, ma niente. Panico totale. Sensi di colpa a iosa.
Questo fin quando non realizzai, mi ci vollero un paio di giorni ma alla fine accadde, che io non sono una mamma che da retta al proprio figlio solo quando fa qualcosa che non deve. Niente affatto. Quindi non poteva trattarsi di una richiesta di maggiori attenzioni. Meno che mai del fatto che il bambino fosse attratto dal suono della parola (come succede ai più piccoli).
E fu così che all’improvviso tutto si fece chiaro: spiegai a mio figlio con tutta la calma e la serenità del mondo perchè le parolacce non si dicono. Mi ascoltò con molta attenzione e alla fine promise, suggellando il patto con un bacio, che non l’avrebbe più detta. Quando, due ore dopo, ruppe la promessa non mi mostrai turbata più di tanto, semplicemente gli dissi, sempre con molta calma: “Mamma è molto delusa perchè non hai mantenuto la promessa”. Guadagnai un altro bacio e il rispetto definitivo del nostro patto. Senza urla nè castighi. Che bella soddisfazione!
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