Addio a Mattia Torre: lo sceneggiatore, autore e sceneggiatore di teatro, cinema, e tv, è morto a Roma nella giornata di ieri, il 19 agosto. Aveva 47 anni ed era malato da tempo.
Con Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico era stato l’autore di Boris, Boris-Il film, Ogni maledetto Natale, di Parla con me di Serena Dandini, delle serie Buttafuori e della bellissima La linea verticale interpretata da Valerio Mastandrea che raccontava la sua malattia.
Fra i migliori drammaturghi della scena teatrale italiana, Mattia Torre ha scritto tanti bellissimi monologhi, come È sempre colpa dell’altro e I figli ti invecchiano recitati da Valerio Mastandrea.
Un monologo diventato un cult che parla con ironia e affetto, sentimento e realtà del mestiere di genitore interpretato con intelligenza da Valerio Mastandrea, già vincitore del David di Donatello per Gli Equilibristi e La prima cosa bella.
Il monologo I figli ti invecchiano
I figli ti invecchiano perché passi le giornate curvi su di loro e la colonna prende per buona quella postura, perché parli lentamente per far capire quello che dici e questo finisce per rallentarti, perché ti trasmettono malattie che il loro sistema immunitario sconfigge in pochi giorni e il tuo in settimane. Perché ti tolgono il sonno per sempre: quindi assonnato, curvo, lento e acciaccato sei nella terza età.
I figli ti invecchiano anche perché quando vengono al mondo mettono fine con violenza inaudita alla stagione di apertitivi, feste e possibilità che ti sembravano il senso stesso della vita. Murato in casa e reso cieco da una congiuntivite, hai un vago ricordo di ciò che eri e di quello che avresti potuto esprimere, ma non sai più che cosa. Hai solo molto, molto sonno.
I figli si insinuano nella tua mente in modo subdolo e perverso.
Se sei con loro, ti soffocano, se non ci sono, ti mancano.
Ci è successo di voler scappare dopo troppe ore insieme a loro e poi trascorrere tutta la serata in un ristorante a guardare le loro foto sul telefonino, straziati da una nostalgia senza senso, perché li avresti rivisti dopo un’ora, un’ora e mezza.
Parlo di figli al plurale perché quando ne hai uno solo l’impresa sembra ancora fattibile. Il tuo promo e unico figlio è gentile, dorme e sebbene l’assetto familiare è nuovo, hai ancora l’illusione di poter essere te stesso, ma se per caso arriva il secondo, arriva come una deflagrazione.
Nove mesi dopo che è nato il suo secondo figlio, il tuo appartamento è come un 41 bis e quando è così ogni scusa è buona per uscire.
Si litiga per chi deve fare la spesa o pagare il bollo della macchina, ci si catapulta fuori alla prima citofonata dell’Ama e la sera ci si affaccia alla finestra valutando le possibili conseguenze di un salto nel vuoto.
Quando poi finalmente riesci a uscire di casa, la babysitter è la tua nuova, esaltante, costosissima droga, beh, ti rendi conto che il mondo fuori non è più lo stesso, non fa già per te.
La gente è vitale, allegra, tonica, crede nel futuro e tu ti aggiri come un revenant, con l’andatura incerta, l’inconfessabile desiderio di voler solo tornare a casa. Inoltre perdi anche le tue certezze ideali: provavi una pena infinita per quelli che odiavano il weekend e bramavano il lunedì che il lavoro li teneva lontano dai figli.
Guardavi con sufficienza le casette anni sessanta con la zona pensata per la tata; le desideri con tutte le forze, la notte fai sogni catastali.
Ti sembrava sconcio che una famiglia viaggiasse con la filippina al seguito: beh non sogni altro. Sei un conservatore, non ti riconosci allo specchio e va benissimo così. I figli poi tirano fuori la tua rabbia perché devi saper dire no anche quando non ne hai voglia o quando quel giorno non hai la struttura emotiva per farlo. Quando lo esorti ad addormentarti da solo, tu lo esorti. Bravissimo, ma tu sei attanagliato da un tale senso di colpa che insieme alla madre, distrutta pure lei, vai a svegliarlo e chiedi, “Come va? Come era? Come è andata questa esperienza, incredibile”.
E lui ti guarda con un senso di confuso disprezzo, rigirandosi “Ma mi fai dormi’?”.
I Figi invece alla fine ti invecchiano perché sei già vecchio. In paesi dinamici ed evoluti dove la democrazia non è un concetto così imprendibile come da noi, i genitori hanno 25 anni, sono forti, flessibili e giustamente incoscienti. Qua se diventi padre intorno ai 35, 36, 38 anni, tra gli altri genitori del nido, vieni detto “il giovane”.
Intorno a me padri di 50-60 anni, con lo sguardo spento, la lombalgia e l’animo cimiteriale di chi non dorme da mesi e hai comunque l’impressione che loro siano più in forma di te.
Ma più di tutto conta ciò che i figli fanno alla tua mente. I figli ti fanno ripiombare con una forza che neanche l’ipnosi nel tuo passato più doloroso e remoto. L’odore degli alberi alle 8 del mattino prima di andare a scuola, la simmetrica, precisione dell’astuccio, la catena sporca della bici, le merendine, la ghiaia, le ginocchia sbucciate. Questi ricordi, non so dire perché, sono la mazzata finale. La vita stessa che credevi di avere incasellato in categorie discutibili, ma tutto sommato valide, tue, sfugge via.
Sei una piccola parte di un tutto più complesso e i gin tonic hanno smesso di darti l’illusione dell’eternità.
Sei un pezzo di un grande ingranaggio e siccome siamo in Italia, l’ingranaggio è vecchio e arrugginito e si muove a fatica. D’altra parte il tuo cuore non è mai stato così grande.