Separarsi dal proprio bambino, per necessità o perché non ci si sente pronte a diventare mamme. Sono tantissime le donne che scelgono di non abortire, ma che abbandonano il loro piccolo in ospedale, sperando sia accolto e accudito da persone qualificate e, soprattutto, possa avere una famiglia che lo ami. Ogni anno, queste situazioni si verificano con una certa frequenza: pensate, che solo a Roma sono circa 60 i casi.
È un trend decisamente in crescita perché nella capitale, fino a qualche anno fa, gli orfanelli in ospedale non superavano i 40/50 casi. È anche il segno di una società in continuo mutamento: non esistono più, per fortuna, gli aborti illegali e molte donne, soprattutto le immigrate, non sanno a chi rivolgersi per mettere fine alla loro gravidanza. La soluzione? Rivolgersi a una struttura pubblica e poi scappare. Quello di queste donne è comunque un gesto d’amore: di solito sono mamme giovanissime, senza mezzi per crescere un figlio. È questo forse il sacrificio più grande.
Non si tratta di un’azione illegale. La legge italiana, infatti, prevede alla donna di partorire in segretezza e di non riconoscere il bebè. Non c’è bisogno quindi di fuggire o di chissà quale sotterfugio. Pensate che il tribunale, se la mamma non riconosce il neonato, non può indagare sulla paternità. Il bambino, inoltre, non può essere adottabile e neanche considerato abbandonato.
Molte donne, che lasciano i figli nella spazzatura, sulle scale delle chiese o in chissà quali angoli delle città, dovrebbero tenere in considerazione quest’opportunità. Lasciare un bambino in ospedale vuol dire assicurargli un futuro. Esiste poi un altro servizio, chiamato in gergo “culle per la vita”. Sono strutture, di solito realizzate in prossimità degli ospedali, dove le mamme possono abbandonare nel pieno anonimato e in sicurezza i loro bambini. In Italia, quelle censite dal Movimento per la vita, sono 36 e l’ultima è sorta a Villa Salus di Mestre, quest’anno a Mestre.